Rosario Livatino: un uomo schivo, un uomo qualunque, un giudice, a prima vista, “come tanti altri” che amministrano quotidianamente la giustizia nei tribunali italiani se non fosse che, quell’uomo qualunque, quel “giudice ragazzino”, come successivamente appellò il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga altri giudici che si trovavano, giovanissimi, ad operare in terra di mafia, è morto trucidato, brutalmente, una calda mattina di settembre del 1990 e Domenica 9 maggio verrà proclamato beato.
Parlare di Rosario Livatino non è cosa semplice. Il rischio, sempre dietro l’angolo, è quello di scadere nella “banalità del bene”. Farlo apparire un “santino”, un uomo lontano anni luce da un qualsiasi uomo dei suoi tempi, è il pericolo in cui potrebbe incorrere chiunque si cimenti a scrivere di lui.
Della sua vita si sa poco. Pochissime le amicizie che si protrassero negli anni. Nella solitudine quotidiana, nella incomprensione che generavano molti dei suoi comportamenti, nell’imperscrutabilità del suo essere uomo e uomo riservato e discreto, credente e consapevole del ruolo gravoso di amministrare la giustizia.
Rosario Livatino poteva apparire eccessivo in tutto quello che faceva. Nel suo essere timido e integerrimo. Rosario non lasciava mai, in quanti lo incontravano, sentimenti tiepidi. Nell’esercizio delle sue funzioni sapeva astrarsi da ogni occasione di possibile condizionamento. Alieno da ogni forma di protagonismo, era un rigoroso custode del segreto istruttorio che rispettava e che pretendeva venisse rispettato dagli altri.
La notorietà degli inquisiti o il clamore della “notitia criminis” non costituiva mai motivo per derogare a tale scelta che, se da un lato salvaguardava il buon esito delle indagini, dall’altra tutelava l’immagine dell’indagato nella fase in cui il suo nome non doveva essere dato in pasto alle cronache.
08/05/2021
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