Il trofeo più sognato, per chi vince le elezioni in Italia, non è tanto lo scettro del governo quanto il timone della nave Rai.
Non sono mancate, negli anni, le riforme per i vertici della Rai, tutte orientate a definire meglio la governance e, almeno nelle intenzioni iniziali, ad allontanare le antenne partitocratiche dal tubo catodico. Ma giammai i nuovi assetti giuridici hanno prodotto i risultati sperati. Per una semplice ragione: può cambiare la formula giuridica di controllo, ma se un’azienda è pubblica, è inevitabile, vuoi o non vuoi, che la classe politica dica la sua e voglia incidere nella linea editoriale e nelle scelte operative.
La pandemia ha messo ancor di più in risalto questa contraddizione, già emersa da tempo. Sempre gli stessi temi, sempre gli stessi protagonisti, sempre gli stessi invitati: una sorta di trasmissione unica itinerante, ora su un canale ora su un altro, e senza particolari distinzioni tra offerta pubblica ed offerta privata. È come se i supermercati, anziché farsi la concorrenza sui prodotti in esposizione, li vendessero a orari prestabiliti e secondo un piano concordato.
I monopòli e gli oligopoli non vanno mai bene. Non vanno mai bene nei supermercati, nell’economia, nella politica e, anche, negli studi televisivi. Ovviamente, non si può certo pretendere che gli inviti in tv debbano essere sottoposti a un regolamento inflessibile. L’Italia è già stracarica di normative e prescrizioni, non è il caso di appesantire ancora il suo insostenibile positivismo giuridico. Ma il buon senso vorrebbe che le trasmissioni tv non fossero una riserva di caccia per i soliti frequentatori, non fosse altro perché a furia di inflazionare il video, riesce difficile introdurre nuovi spunti e nuovi criteri di riflessione.
05/05/2021
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